Si sa, le ferie sono fatte per viaggiare, visitare posti nuovi e godersi le calde carezze del sole estivo. Io, nel mio piccolo, ho rispettato questa “tradizione”. Sabato mattina, armata di crema solare, tanta acqua e colazione al sacco sono andata a vedere la Valle dei Templi ad Agrigento. Il viaggio è stato lunghetto e a tratti antipatico, la strada scorrevole era franata da pochi giorni e le segnaletiche provvisorie risultavano decisamente poco chiare. Credevo che ci saremmo persi, ma così non è stato. Fortuna che passare ore in macchina con il mio innamorato alla ricerca di paesini interessanti è una nostra dolcissima abitudine altrimenti avrei dato di matto.
Il primo templio l’ho visto dal parcheggio. Grande, imponente e decisamente a pezzi. Della struttura originale erano rimaste solo le fondamenta e un buon numero di colonne spezzate, l’elemento centrale quasi scomparso e del “tetto” nessuna traccia. Eppure mi è sembrato grandioso. Ho subito immaginato a come sarebbe potuto essere un tempo, pieno di persone che lo visitavano per adorare chissà quale divinità, la luce calda delle candele che illuminava le pareti rossastre rendendo visibili squarci di decorazioni. Pieno di vasetti e statuine offerte in cambio della benevolenza degli dei. La fantasia si è interrotta quando, scendendo dalla macchina, ho fatto i conti con il sole. Non era una giornata particolarmente calda ma la mia passeggiata sarebbe iniziata alle 12 e questo la rendeva piuttosto rovente. Ho comprato un cappellino di paglia intrecciata, simile ad un panama ma di un bel verde militare, che in cambio di un aspetto buffo mi ha donato tanta freschezza. Varcata la soglia metallica che divide la strada dalla valle mi sono sentita una bambina. Avevo a mia disposizione stradine di terra battuta che si alternavano a stradine di pietra. Tutto era un continuo sali e scendi, tra ulivi antichi e mandorli, pietre e pezzi di colonne, mi era venuta un’irrefrenabile voglia di perdermi. Assecondata dal mio fidanzato ho potuto vagare e insinuarmi tra i cespugli (ignara del fatto che avrei rischiato di godere della compagnia di una vipera) e i resti archeologici. Ovviamente non ho visto i templi seguendo il loro ordine “logico” e li aternavo piacevolmente a quelle cose che si fanno notare decisamente meno come la necropoli. La parte che si poteva visitare era decisamente ristretta e superficiale, un insieme di buchi rettangolari, poco profondi e piuttosto piccoli, tanto da farmi pensare che si trattava di un popolo costituito per la maggior parte da nanetti. Cosa mi abbia spinto a voler passeggiare tra quelle tombe devo ancora capirlo, fatto sta che mi ha portato in una stradina che conduceva alla necropoli sotterranea, aimè strada sbarrata da un crudellissimo cancello di ferro che però, insieme a due minuscoli balconcini, permetteva di vedere una piccolissima porzione di quello scavo spettacolare. La prima domanda che mi sono posta, guardando quelle immense bolle d’aria sotto di me, era come facesse tutta quella pietra a rimanere lì, immobile nel tempo, senza lasciarsi vincere dalla forza di gravità. Senza ombra di dubbio, oltre ad essere grandi artisti, i greci erano dei fantastici matematici. I templi da me visitati sono stati sei su i nove presenti nella cartina. Tutti emozionanti e splendidi, affiancati da un’interessante cinta muraria piena di stanzette cilindriche dal tetto a botte e di cunette, ma quattro mi hanno regalato un pizzico di emozione in più. Il primo, detto tempio della Concordia , costruito verso il 450 a.C. era il più integro. Frontalmente avreste pensato che non fosse stato minimamente intaccato dal tempo, quasi perfetto, se non fosse stato per la mancanza del tetto. Tra tutti il più emozionante. La tentazione di superare le barriere di sicurezza e inisinuarmi tra le colonne fino a scomparire nella cella per poter godere a pieno di quell’aria magica era talmente tanto forte che temevo di non riuscire a resistere. Più di qualche passo più avanti ho incontrato il tempio di Ercole, il più antico tra i templi dorici di Agrigento, risale alla fine del VI secolo a.C. e vantava 38 colonne di cui solo 8 si sono salvate, 4 ancora con il capitello. Bhè, qui non sono riuscita a resistere. La grande struttura era completamente circondata da macerie più o meno distinguibili che creavano piccole stradine tortuose prive di recinzion, ovviamente non mi sono fatta sfuggire l’occasione di sgattaiolare fin sulla la base del tempio e guardarlo da vicino. Ho provato l’emozione di chi trasgredisce le regole e allo stesso tempo mi sono sentita davvero lì, per un attimo, lontana da tutto, come se mi fossi affacciata da una finestra rivolta al passato. Visitata la prima parte della valle ho ripreso per pochi istanti il contatto con la realtà, ma solo perchè sono stata costretta ad attraversare lo stradone. L’altro lato della valle è stato il più suggestivo. Dietro un capitello gigantesco, ammucchiato ad altri pezzi di colonna, sdraiato come un guerriero stanco, c’era un gigantesco uomo di pietra. Lacerato dal tempo, le fattezze non erano chiare ma la sua presenza era forte. Lui, insieme ad altri compagni di cui rimaneva ben poco, sorreggeva il tempio di Giove olimpico, una costruzione gigantesca (112x60x56,30m) costruita in ricordo della vittoria contro i cartaginesi a Imera nel 480 a.C. di cui sono rimasti solo detriti ammucchiati, franati eppure ancora grandiosi e imponenti. Quella struttura crollata non aveva affatto perso la sua forza, nulla, tra quei resti, aveva il sapore della sconfitta. La fine del sogno è arrivata insieme al tempio dei Dioscuri o tempio di Castore e Polluce, sorgeva al centro del santuario delle divinità etonie (V secolo a.C.), le sue rovinne formano un pittoresco gruppo di quattro colonne divenuto l’emblema di Agrigento. Oltre ad essere molto suggestivo è l’unico in cui si possono ancora trovare squarci di decorazioni, tra cui la testa di un leone a rilievo. La sfortuna ha voluto che lo trovassi nel bel mezzo di un restauro e non ho potuto godere a pieno della sua magia. A consolarmi, però, ci ha pensato il paesaggio circostante, il templio si trova in una posizione a mio parere privileggiata, affacciandosi da lì si vedono parecchie grotte scavate nella montagna e sotto di esse, in periodi meno aridi, dovrebbe esserci un fiume. A dare un tocco in più, lo devo ammettere, ci ha pensato la mostra di Ivor Mitoraj, un artista davvero affascinante che ha interpretato a suo modo alcune delle figure della mitologia greca trasfornandole in grandissime statue di bronzo dai dettagli affascinanti. Queste statue, sparse nella valle, donavano la piacevole sensazione che qualche divinità fosse davvero passata da lì a testimoniare che ciò che stavamo vedendo un tempo era davvero vivo. Un pò come dei guerrieri che fanno ritorno nella propria patria, anche se ormai distrutta.
Finita questa piacevole passeggiata nel tempo non ho potuto resistere a visitare il museo, uno dei più grandi e ricchi d’italia, pieno di splendidi vasi e statuette votive, che mi ha regalato una grandissima sorpresa. Nel cuore del museo, quasi alla fine del percorso, l’ho visto, gigantesco e eretto, un uomo di pietra, compagno di quello che dormiva accanto al tempio che un tempo sosteneva, forte e maestoso, capace di farmi sentire un microscopico esserino, sorrideva e guardava in alto.
E’ stato stancante, lo ammetto, il sole non mi ha risparmiata e le mie braccia bruciano un pò, credevo che non sarei più riuscita a fare un altro passo all’uscita del museo eppure ripercorrere la strada e vedere nuovamente quelle meraviglie mi ha fatto passare ogni segno della stanchezza. L’avrei ripercorsa tutta e tutta la ripercorrerei anche adesso. E’ stato quasi un sogno. Anche grazie alla compagnia della persona giusta. Sognare in due è più bello, non credete? E se ci sono ripetizioni mi dispiace ma non mi scuso, i sogni ad occhi aperti vanno scritti tutti d’un fiato, non si rileggono e non si correggono, la troppa attenzione raffredda le emozioni.